Il 28 gennaio, all’Acquario civico di Milano, si è svolto il secondo seminario sul fundraising di comunità dedicato ai progetti finanziati dal bando Welfare in Azione di Fondazione Cariplo.
Un seminario per condividere, apprendere e disseminare le migliori pratiche di fundraising di comunità.
In questi anni, Fondazione Cariplo ha voluto giocare il ruolo dell’innovatore sociale anche sul fronte del fundraising, provando a strutturare una funzione stabile di fundraising di comunità nei 37 territori coinvolti nelle 4 edizioni del Bando.
Una giornata di bilanci e rilanci a fronte dell’investimento importante da parte di Fondazione Cariplo, e dei servizi di accompagnamento Fundraiserperpassione e Goodpoint, che hanno supportato le singole reti territoriali fin dalla fase di messa a punto dello studio di fattibilità
Una giornata che Katarina Wahlberg, del team Welfare in Azione, ha voluto aprire mettendo al centro temi importanti sotto forma di domande aperte.
Su quale orizzonte temporale e su cosa ‘misuro’ il ritorno dell’impegno sul Fundraising? Quali sono le cose concrete e significative che restano nei territoridopo l’avventura del Fundraising di comunità? Se il Fundraising genera anche, e forse soprattutto, un capitale sociale, culturale e fiduciario più che risorse economiche vale comunque la pena farlo?
A queste domande, nel corso della mattinata, hanno provato a rispondere quelli che ogni giorno cercano di attivare, la rete, la comunità, i territori.
Quando funziona il Fundraising di comunità?
Sono 6 i fattori e 6 le dimensioni chiave che possono influire sul successo o meno del fundraising di comunità: la qualità della rete e la governance del fundraising, il progetto, le competenze del team, le risorse (budget e tempo), la buona causa e il territorio.
Cosa determina la qualità della rete e della governance del fundraising?
Una rete di qualità si realizza quando i singoli partner che ne fanno parte condividono finalità e obiettivi, ma soprattutto un metodo di lavoro. Quando tutti i soggetti del partenariato riescono a mettere a fattor comune le proprie relazioni, identificandosi non nella singola organizzazione di appartenenza ma nel progetto stesso. Solo così è possibile essere convincenti verso l’esterno e trasmettere in modo sentito ed efficace la buona causa che di volta in volta muove le singole azioni di fundraising.
Quali caratteristiche deve avere il progetto?
Il rapporto fra fundraising e andamento delle azioni di progetto è molto stretto pertanto anche chi si occupa di raccolta fondi e di attivazione della comunità deve essere in grado di riprogettare gli interventi che non funzionano ricalibrandoli sulle azioni che mostrano di richiamare più visibilità e più consenso.
Se funziona il progetto, funziona anche il fundraising. Il fundraising è una funzione strategica e non solo operativa e va vissuto come obiettivo di progetto. Tre anni sono un tempo circoscritto ma sufficientemente esteso nel quale fare accadere delle cose. Ma bisogna avere visione e saper guardare anche oltre i tre anni.
All’interno del team quale ruolo e quali competenze deve avere un fundraiser?
Il “funding” non è una responsabilità dei soli fundraiser, ma è una responsabilità di tutti.
Tutti i partner devono essere coinvolti e bisogna creare una relazione di fiducia per remare nella stessa direzione. Per questo il fundraiser dovrebbe essere una figura trasversale che coordina le azioni portate avanti da tutta la rete. Il fundraiser non può essere solo, ma deve essere coinvolto nella governance. E deve avere una formazione, perché fundraiser non ci si può improvvisare. A raccontare la loro esperienza, tre fundraiser provenienti da percorsi formativi ed esperienze professionali diverse tra ma uniti dalla stessa determinazione di superare ostacoli e criticità.
Michele Poletti, del progetto Family Like, uno psicoterapeuta che si è formato come fundraiser. ha raccontato le difficoltà che ha incontrato.
“Occuparmi di fundraising, per me era un’occasione per sperimentare psicologia sociale. Ho cominciato con una campagna di raccolta fondi nel periodo pasquale e ho ottenuto un risultato più alto rispetto all’anno precedente. Ero soddisfatto del mio operato ma al contempo mi sentivo solo. È stato allora che ho avuto un’intuizione. Forse si sentivano sole anche le persone che lavoravano al progetto. E così era. Allora ho cercato di coinvolgere la rete dal basso, facendo leva sulle loro potenzialità e sulla buona causa comune. Ha funzionato. Ho anche chiesto di essere coinvolto nella governance e così è stato. E i risultati successivi sono stati sempre superiori alle annualità precedenti”
Gloria Cerabona, del progetto giovenTU, formata come fundraiser, ha raccontato quali conferme e quali sorprese può riservare il lavoro di fundraiser.
“Il fundraising non si può fare al telefono, bisogna alzarsi dalla scrivania, andare dalle persone e parlare con loro. Ci hanno sorpreso alcuni risultati: ci sono campagne sulle quali avevamo puntato molto che non hanno funzionato e viceversa. L’unica cosa certa è che il fundraising deve essere un obiettivo di tutti i soggetti della rete.”
Quanto è importante la buona causa?
La buona causa è la promessa di cambiamento che si fa al territorio, per questo è il nodo intorno al quale si sviluppa l’attività di fundraising. Non tutte le cause sono facili da comunicare, per questo bisogna trovare un equilibrio fra complessità e semplificazione. Infatti, quando il problema è immediatamente visibile e comprensibile, ed è presente al territorio, il fundraising funziona meglio, sia perché i cittadini sono più predisposti ad attivarsi, sia perché il fundraiser ha una motivazione più vicina ai beneficiari.
Elena Zulli, fundraiser del progetto Contatto, ha raccontato di come sono riusciti a tradurre la loro sfida in una buona caua.
“La giustizia riparativa di cui si occupa Contatto è un concetto che in Italia sta prendendo piede lentamente, per questo difficile da comunicare. In più il nostro target è composto da avvocati e da cittadini comuni, quindi i linguaggi sono diversi. Eppure siamo riusciti a mettere in piedi a costo zero, uno spettacolo teatrale ispirato a Nelson Mandela con cui abbiamo raccolto 12 mila euro.”
Alessandro Augelli, fundraiser del progetto Brescia città del noi, ha raccontato di come sono riusciti a individuare una buona causa che coinvolgesse un pubblico molto ampio.
“Il nostro progetto aveva molti destinatari: chi coinvolgere per il fundraising? Siamo partiti da valori alti e siamo atterrati alla buona causa. Così è nata la Bimborsina, un progetto di welfare locale, un kit di benvenuto per i nuovi nati che contiene prodotti sanitari e servizi per l’infanzia presenti in città che ha dato visibilità al progetto e ha convolto nuovi donatori.”
Il territorio può influenzare gli esiti del fundraising?
La cultura del fundraising di un territorio è determinante, ci sono territori dove questa va costruita da zero. I risultati più sorprendenti sono stati nei territori più periferici perché lì i legami sono più forti. Ecco perché prima di chiedere delle donazioni, bisogna creare comunità. Ed ecco perché il fundraiser deve avere intelligenza emotiva e deve sapere creare legami.
Il successo delle azioni è dato anche da quanto i progetti riescono a creare comunità e relazioni prima di chiedere donazioni.
Raccogliere centinaia di migliaia di euro partendo da zero, impone di ragionare in termini di donatori, non di donazioni.
Prima di concludere la giornata, Marco Cremonte di Goodpoint ha invitato la platea a partecipare a un gioco. Una versione un po’ rivisitata del modello di analisi the Boston Matrix, ideato negli anni’60 ed utilizzato come strumento nei processi di management, per classificare le aree strategiche e definire dove allocare risorse/budget.
Ha prima distribuito dei cartoncini con le 4 illustrazioni corrispondenti alle 4 aree strategiche: la stella nascente (strumento promettente, non ancora troppo diffuso o debitamente sperimentato che potrebbe essere costoso) il bambino problematico - (uno strumento ancora debole e piuttosto costoso in termini di energie e tempo da dedicare) la mucca da mungere (le iniziative consolidate che portano buoni frutti con un investimento contenuto) i cani morti ( quelle azioni che richiedono molte cure e sono caratterizzate da bassa efficienza).
E poi, presentando diverse iniziative di raccolta fondi, ha chiesto alla platea di rispondere alzando un cartoncino per capire dove ciascuno le collocasse sulla base dell’esperienza maturata nel proprio progetto. Un modo divertente per trasferire uno strumento utile per decidere dove impiegare le proprie energie.
Una giornata di apprendimenti preziosi, strumenti e strategie efficaci.
Una giornata piena di domande che hanno fatto emergere problemi e soluzioni, insieme, nella modalità di Welfare in Azione.
E un punto fermo: l’innovazione succede.
Immaginare una funzione stabile di fundraising territoriale è una sfida che richiede molto impegno perché non tutti i territori sono pronti e all’interno dei progetti non tutti hanno la stessa voglia di investire su questa funzione in un’ottica di lungo periodo.
Ma anche se non sappiamo quando, perché i cambiamenti non sono lineari, il cambiamento sociale succede.