Se c’è un numero che può indicare l’effetto straordinario che La Cura è di casa, uno dei progetti della seconda edizione del bando “Welfare di Comunità” di Fondazione Cariplo, ha generato è questo: 100.000 km percorsi in 4 anni dai volontari.
La Cura è di casa nasce nel 2016 con l’obiettivo di aiutare le persone anziane a “invecchiare bene a casa propria” e a contribuire a migliorare la qualità della loro vita, nella zona del Verbano Cusio Ossola e nell’alto Novarese. Un territorio che sconta un invecchiamento della popolazione tra i più alti in Italia (nel 2020 l'indice di vecchiaia per la provincia del Verbano Cusio Ossola è di 248,1 anziani ogni 100 giovani). Per la prima volta in quest’area, viene avviata un’azione che si occupa di anziani vulnerabili che hanno superato i 65 anni, non in carico al sistema tradizionale sociosanitario. Persone spesso sole, prive di una rete familiare o sociale, per i quali basterebbe una caduta, una necessità improvvisa, una piccola difficoltà da fronteggiare per scivolare nella non-autosufficienza ed essere costretti a trasferirsi in una casa di riposo, abbandonando la propria casa, i propri ricordi e le proprie abitudini. La Cura è di casa ha coinvolto una rete di 23 partner (pubblici e privati) e ha attivato programmi di assistenza e supporto personalizzato per la cura della persona, il supporto psicologico, servizi infermieristici e di mobilizzazione attiva, accompagnamenti per visite mediche e aiuto nella spesa. Non solo, nel tempo il progetto ha creato occasioni di incontro e di rafforzamento delle relazioni per contrastare la solitudine e l’isolamento.
La cura è di casa è un progetto ancora attivo che, in tre anni, ha registrato numeri straordinari: 678 anziani presi in carico, 181 volontari coinvolti (tra di loro, molte persone over 65 che si sono trasformate in risorse preziose per la comunità), 7000 ore impegnate a sostegno della domiciliarità in attività socio-alberghiere. Ha impiegato 178 operatori professionali e creato nuove figure professionali: 8 network manager, 17 care planner, e raccolto quasi 500.000 euro di fundraising.
Fin da principio, ha messo a punto una griglia di valutazione della vulnerabilità condivisa tra i vari soggetti e sviluppato un’applicazione che consente a professionisti e volontari di esprimere la propria disponibilità per gli interventi che il Network Manager ha pianificato, di registrare l’orario di inizio e fine degli interventi e altri dettagli per monitorare tutte le attività di progetto e di organizzarle all’interno della rete. Chiara Fornara, è la responsabile del Progetto. Insieme a lei abbiamo ripercorso le tappe della Cura è di Casa.
Prima dell’inizio del progetto, quali erano i problemi principali del vostro territorio ai quali volevate dare una risposta?
Il tema dell’anzianità era centrale nel nostro territorio già nel 2016 perché viviamo in un’area interna con un importante invecchiamento della popolazione: ci è sembrato necessario riflettere sul supporto alle persone anziane a domicilio. Un altro aspetto della nostra zona è che si tratta di una realtà molto estesa dal punto di vista geografico ma c’è molta dispersione degli abitanti, la densità abitativa è bassa e ci sono paesi che si stanno spopolando. Era fondamentale mettere in gioco la provincia su un progetto condiviso e avviare un percorso di co-progettazione che comprendesse tutta la provincia.
E ora, 5 anni dopo, che cosa è cambiato grazie agli interventi?
In termini generali si è acceso un faro sulla fascia grigia di popolazione composta non di anziani gravemente insufficienti che, bene o male, sono in carico al sistema sociosanitario, ma su persone che iniziano ad avere problemi di autonomia ma che vogliono e possono ancora stare a casa, però hanno bisogno di una rete di supporto comunitario di monitoraggio e sostegno
Allo stesso tempo, il progetto ha portato alla luce un’altra fascia di popolazione, che è quella di anziani attivi che possono essere una risorsa della comunità. Quando siamo partiti, abbiamo riflettuto sul concetto di anzianità, perché non ne esiste uno solo, ma molti e per ognuno ci sono bisogni diversi. Si trattava di capire quali leve azionare. Abbiamo avviato un lavoro molto importante di mobilitazione delle associazioni, di people raising di anziani attivi che avevano voglia di mettersi in gioco e abbiamo costruito un registro di volontari che, insieme agli operatori professionali, in questi anni si sono fatti carico in maniera formata e coordinata di una serie di servizi. Abbiamo costruito legami tra le realtà professionali dei servizi comunali che già svolgevano attività domiciliari con la rete delle residenze assistenziali. Le RSA si sono aperte al territorio mettendo a disposizione infermieri, geriatri, psicologi, animatori, fisioterapisti per andare a domicilio, per fornire pasti ma anche offrendo i loro spazi come le palestre. Questo ha consentito di creare un legame di vicinanza con strutture che sono solitamente viste un po’ come l’ultima spiaggia e di trasformarle in un punto di erogazione di servizi. Ovviamente il Covid ha bloccato questa interazione, anche se le forniture di pasti a casa non si sono mai interrotte, ma adesso le RSA che hanno colto questa opportunità si stanno rimettendo in pista con i corsi di ginnastica dolce, il monitoraggio a domicilio infermieristico o riabilitativo e altri servizi.
È nata una consapevolezza condivisa che se facciamo rete diamo servizi efficaci e utili alle persone a domicilio. Si parla tanto di assistenza domiciliare ma noi crediamo che non sia sufficiente una visione puramente sanitaria: la presa in carico della persona deve essere di sistema.
Molti servizi a bassa soglia possono essere garantiti dai volontari, come pasti, trasporti (che nella nostra valle sono importantissimi), attività di socializzazione di contrasto alla solitudine. Per esempio, abbiamo attivato le “telefonate amiche”, grazie anche alla rete con i giovani delle scuole: ragazzi delle quarte e quinte superiori sono stati formati e 40 ragazzi hanno “adottato” un anziano. Il sostegno domiciliare è fatto di tante cose, è un sistema che tiene conto degli aspetti di salute ma anche relazionali e mentali, in una logica di salute più olistica. Il progetto ci ha insegnato che la dimensione della domiciliarità deve prendere in considerazione più livelli e tutti hanno dignità. Le richieste più comuni che arrivano dagli anziani sono di aiuto negli atti della vita quotidiana, come per esempio fare il bagno, ma anche di contrasto alla solitudine. Dal progetto inoltre sono nati diversi luoghi di incontro, vecchi circoli di paesini sono stati rigenerati, e adesso ospitano attività strutturate.
Tra tutte le innovazioni introdotte grazie al progetto, qual è stata la più significativa?
L’integrazione tra operatori professionali e volontari è stata l’arma vincente, due mondi si sono incontrati e sono diventati una cosa sola. Abbiamo anche sviluppato un’applicazione che consente di pianificare l’attività del volontario e dell’operatore sullo stesso vecchietto: la telefonata di monitoraggio, il bagno settimanale, la spesa, l’accompagnamento. Il welfare territoriale è fatto di tanti soggetti e metterli insieme è stata una sfida che ha funzionato e che può ancora essere potenziata.
Che cosa è accaduto che non era stato previsto?
La sorpresa piacevolissima e inaspettata sono stati i risultati straordinari di fund raising. Abbiamo raccolto quasi 500.000 euro che per una provincia così piccola sono davvero tantissimi. Penso che sia successo perché abbiamo intercettato un bisogno, il fatto di essersi occupati dei nostri anziani ha incontrato la fiducia delle persone.
Poi con l’arrivo del Covid la popolazione era ancora più sensibilizzata. Abbiamo realizzato tanti eventi e azioni concrete che ci hanno consentito di farci conoscere sul territorio.
Che cosa, per contro, non è accaduto e il progetto non è riuscito a realizzare?
Avevamo in mente azioni che coinvolgessero le famiglie degli anziani ma non siamo riusciti a progettarle, credo proprio per una questione di tempo e risorse, purtroppo non si può fare tutto. L’altro aspetto su cui possiamo ancora lavorare è il tema dell’assistenza informale, ovvero le badanti. Le famiglie normalmente si aggiustano da sole, invece c’è una grande necessità di formazione di questo personale, di costruire un albo delle competenze per aiutare le famiglie a individuare badanti con credenziali legate a una professionalità, che sappiano fare quel mestiere. E, allo stesso tempo, esiste anche il tema delle famiglie che trattano male le badanti, lo sfruttamento. A garanzia del sistema ci sono molte azioni da fare.
Quali sono state le principali difficoltà?
Il partenariato non è sempre stato facile, visto che ci muovevamo su tutta la provincia. Costruire la rete di progetto ha implicato tanto impegno e ci sono stati anche momenti critici da superare. L’altro aspetto di difficoltà è che si trattava di un progetto innovativo e abbiamo chiesto ai nostri operatori, soprattutto quelli delle RSA di “metterci un pezzo in più”, un grosso impegno che certo il Covid ha reso ancora più duro. Gli anziani erano più soli, e la fatica degli operatori davvero tanta.
C’è una storia che più di ogni altra racconta la trasformazione che il progetto ha generato?
La storia più emblematica secondo me è quella di Mario e Antonio: Mario, che è ancora vivo, nel 2018 aveva 104 anni nel 2018 ed era vedovo da tanti anni, viveva solo nel suo appartamento a Verbania. Ha chiesto aiuto per la spesa, per essere accompagnato a fare una passeggiata sul lungo lago. Il volontario che gli è stato abbinato era Antonio, un uomo single di 86 anni, una persona speciale che aveva gestito tutta la vita grandi organizzazioni e in pensione si era dedicato al volontariato. Tre volte a settimana andava da Mario, lo portava a passeggiare e lo aiutava, è nata una vera amicizia. Purtroppo Antonio è mancato l’anno scorso e per Mario è stato un grande dolore. Ma altre storie bellissime riguardano le amicizie che sono nate tra giovani e anziani con la “telefonata amica”.
Che cosa resta sul territorio che prima non c’era?
Sostanzialmente due cose: la prima è la rete tra volontari, operatori, RSA. L’altra è la consapevolezza che questo target di anziano vulnerabile debba essere intercettato prima che si presentino problemi significativi, perché questo consente una presa in carico che facilita anche i percorsi successivi, è un’azione di prevenzione. Resta l’attivazione e la mobilitazione di tanti anziani attivi che sono diventate risorse per la comunità e dei 180 volontari. Restano luoghi rigenerati che sono diventati luoghi di incontro e iniziative della comunità, come gli orti sociali, e ovviamente tutti i servizi, come i “taxi collettivi” per portare gli anziani dal medico, al cimitero, a trovare i famigliari.
Quali sono i progetti futuri a cui state pensando, innescati grazie anche all’esperienza e gli apprendimenti del progetto?
I due bandi che abbiamo vinto di Compagnia San Paolo e di Regione Piemonte ci hanno permesso di traghettare la Cura di Casa nel progetto La Cura è di Casa cresce, quindi niente si è fermato. E poi ora stiamo ragionando perché vorremmo costituire un ufficio di progettazione a servizio del territorio, vorremmo che diventasse un ufficio strategico di progettazione sociale anche su altri target, per capitalizzare le esperienze e le professionalità che abbiamo costruito.
“Ti chiamo io” è la telefonata amica che aiuta gli anziani e che ha coinvolto gli studenti delle scuole superiori. Chiara Bottazzi, la psicologa che sta seguendo il progetto, ha raccolto in un quaderno le loro testimonianze, ne riportiamo due:
A.B.
Quando è stato annunciato dai prof che quest’anno causa Covid non si sarebbe potuta svolgere l’attività di scuola lavoro sono rimasto un po’ amareggiato perché dal mio punto di vista tutte le attività di stage/scuola lavoro aiutano molto a crescere e stimolano la formazione di un individuo dal punto di vista educativo e soprattutto lavorativo. Passarono svariati mesi finché in classe arrivò una notizia : un che nonostante il periodo negativo poteva provare a sostituire in qualche maniera il percorso scuola lavoro , il progetto “telefonata amica”. Il 12 Febbraio presso l’auditorium dell’Istituto Dalla Chiesa Spinelli , abbiamo ospitato l’organizzazione Pro Senectute Omegna , un'organizzazione omegnese di volontariato che è attiva ormai da più di 40 anni. Ci spiegarono come funzionava questo progetto e il suo scopo, sempre in quella giornata ci fu l'assegnazione delle rispettive persone per svolgere questo progetto. Io scelsi la signora Lea, una fantastica signora di Crusinallo che nonostante l’età, porta avanti passioni e idee molto chiare, ma la cosa che mi ha colpito di più di Lea è la sua saggezza ed esperienza, infatti tante volte mi son ritrovato a porre domande di diversi argomenti per sentire come si sente a riguardo. Perché in fondo una cosa che si sminuisce molto è il confronto tra una persona e l’altra; il momento più profondo che ho trascorso con Lea è stato quando abbiamo discusso sulla vita e su come essa è un'esperienza unica e da vivere.
G.C
Durante le diverse chiamate con il signor. B F abbiamo parlato di diversi argomenti, principalmente di attualità, come per esempio i vaccini, gli esami, la politica…, ma abbiamo parlato anche di temi del passato e di come la nostra scuola era prima del nostro arrivo e del suo pensionamento. Una delle telefonate che mi ha colpito maggiormente, riguardo l’ambito emotivo, è stata la seconda. In quella telefonata abbiamo parlato un po' di tutto, dei suoi hobby, di cosa faceva per tenersi allenato, principalmente tiene allenata la mente con dei sudoku o degli esercizi di matematica, di attualità ma principalmente abbiamo parlato della scuola quando lui era preside. Mi ha raccontato che prima di diventare preside del “Dalla Chiesa Spinelli” era un professore di matematica di alcune classi dei meccanici e alcune degli elettrici, quando erano gli unici corsi presenti. Successivamente però è diventato preside e nel 1990 ha deciso di inserire il corso moda. Mi ha parlato inoltre del clima scolastico e lavorativo di quel periodo. Mi ha detto che in quegli anni c’era così tanta richiesta di lavoro che appena i suoi alunni finivano la scuola avevano già un lavoro. Per concludere la chiamata abbiamo parlato di come queste due generazioni hanno passato la pandemia, secondo le nostre esperienze. Come detto in precedenza questa è stata la telefonata che mi ha colpito maggiormente in modo emotivo. Da questa chiamata ho capito principalmente due cose, la prima è che il modo in cui questo momento è vissuto da entrambe le generazioni non è poi così tanto diverso poiché la sensazione di prigionia è presente in tutti. La seconda invece è che le cose cambiano e non sempre è negativo, bisogna infatti accettare il cambiamento perché da esso potrebbe nascere qualcosa di grande, come per esempio la “nascita” di più corsi in una scuola. C’è stato un momento in cui la sensazione che ho provato è stata quella di pura tranquillità unita a quella di pura curiosità. In quel momento il signor. Bonanno aveva la mia più totale attenzione.