Nel 2017 Milano è già in piena rinascita, è la città del post expo, attraversata da spinte vitali, culturali ed economiche. Ma esiste un territorio, un’area ampia nella periferia sud, ferito da legami famigliari e sociali spezzati, dove gli adulti faticano a prendersi cura dei minori in modo adeguato. Un problema diffuso e trasversale alle diverse condizioni economiche (11 comuni e circa 122.000 abitanti nell’Ambito Distrettuale Sud Visconteo, una zona che racchiude paesi come Rozzano, al 128 posto su 134 per reddito pro capite nella provincia di Milano, e Basiglio, al primo posto della stessa graduatoria) testimoniato dal costante numero di minori in carico ai servizi sociali (oltre 300 nella sola Rozzano) e delle certificazioni di disabilità e diagnosi funzionale nelle scuole (di cui solo il 16% riferito a patologie franche e il restante 84% a disturbi del comportamento dovuti a condizioni ambientali).
Per rispondere a questa emergenza sociale, dove i bambini e i ragazzi rischiavano di diventare invisibili, nasce Texére, un progetto sostenuto dalla terza edizione del bando Welfare di Comunità di Fondazione Cariplo, con ente capofila il Comune di Rozzano: «Siamo partiti dalla consapevolezza di una importantissima mancanza di cura verso i minori nel nostro territorio e dall’affaticamento e dalla frustrazione dei servizi perché, nonostante le strategie messe in campo, il numero delle richieste di intervento non diminuiva, ma anzi aumentava.
Il nostro obiettivo è stato da subito quello di costruire una rete, fare in modo che il tema della cura non fosse appannaggio solo delle istituzioni, ma condiviso dalla collettività
mettendo in campo azioni non solo riparative ma di prevenzione, coinvolgendo attori non istituzionali, come le famiglie del territorio e gli stessi genitori dei minori presi in carico per ritessere i legami famigliari e sociali» spiega Patrizia Bergami, responsabile del progetto Texére.
Che tipo di interventi avete realizzato? Abbiamo costruito luoghi, come Le Case per Fare Insieme (che poi sono diventate le Case della Comunità) che assomigliassero a vere case: spazi accoglienti dove fare attività, laboratori, feste, aperti alla collettività dove le famiglie fragili potessero essere ascoltate e non giudicate, vissuti insieme a figure professionali (dei servizi e del terzo settore) ma anche alle altre famiglie e volontari del territorio che si sono messi a disposizione per sostenere i bambini più vulnerabili e i loro genitori. In questi luoghi, persone con cui i servizi si erano “arresi”, messe nelle condizioni di poter essere aiutate ma anche di diventare a loro volta risorse, hanno svoltato.
Anche i genitori che provengono da situazioni familiari complicate hanno imparato a occuparsi dei propri piccoli in compagnia di altre famiglie; ascoltando consigli, essendo sostenuti nei momenti critici, partecipando alla vita della Casa, si sono scoperti capaci e migliori genitori.
Condividere un’attività che non è imposta da un progetto di tutela di natura prescrittiva (come lo possono essere il bere un caffè alla Casa per Fare Insieme, o l’osservarsi all’interno di una pratica come la drammatizzazione) porta sul medesimo piano gli esperti della cura i e soggetti che hanno bisogno di essere accompagnati. Le persone coinvolte sono passate da 50 nel primo anno a 2.025 al secondo e a 3.322 al terzo (con una quota costante del 10% in più di minori) e il numero di partecipanti attivi alla co- produzione delle iniziative sono passati da 50 nel corso del primo anno, a 170 nel secondo, a 345 nel terzo. Lo stesso metodo è stato applicato nella collaborazione con la scuola. Perché anche l’istituzione scolastica è un luogo tendenzialmente sulla “difensiva” in cui i servizi sono sempre stati intesi come la “volante rossa” che interveniva solo nella gestione delle difficoltà conclamate. Abbiamo costituito un tavolo permanente, che abbiamo chiamato “Connessioni” che riunisce Istituti Scolastici, servizi sociali, UONPIA (ASST) e Terzo Settore per dialogare costantemente tra tutte le figure che sono attive sul territorio. In questo modo, la scuola ha potuto fin da subito segnalare situazioni di criticità e le Case per Fare insieme sono state il presidio per poter dare una risposta a questi problemi, con una modalità più informale che ha anticipato e moltiplicato gli interventi.
E ora, quasi cinque anni dopo, che cosa è cambiato grazie agli interventi? Sul tema della cura esiste ora nel nostro territorio una grande sensibilità collettiva che prima non c’era. La scuola non aveva mai collaborato in questo modo, le famiglie, sia quelle fragili che quelle solidali, non avevano mai dimostrato un coinvolgimento così attivo. C’è un territorio molto più accogliente nei confronti dell’altro. E la pandemia lo ha dimostrato: durante le fasi più critiche della pandemia, quando Le Case per Fare Insieme erano chiuse, c’è stata una mobilitazione incredibile: anche da remoto con strumenti digitali i volontari hanno continuato ad aiutare i bambini nei compiti, i laboratori sono proseguiti. C’era già una “borsa degli attrezzi” dalla quale poter attingere, eravamo organizzati.
Tra tutte le innovazioni introdotte grazie al progetto, qual è stata la più significativa? L’innovazione più importante di Texére è la possibilità di ascoltare i bambini e renderli centrali rispetto agli adulti non curanti e si è declinata in tanti modi. Le Case per Fare Insieme, Connessioni, e l’ideazione di uno strumento “Da chi ho preso i miei occhi”: un kit, realizzato con la casa editrice Carthusia, per operatori, assistenti sociali, psicologi, educatori, giudici tutelari, che contiene una guida e tre quaderni personalizzati in relazione a tre fasce d'età, attraverso cui il bambino può raccontarsi, con il disegno e la scrittura, la raccolta di elementi utili a ricostruire il suo contesto. Dalla volontà di ascoltare i bambini è nato uno strumento prezioso di lavoro, sui cui facciamo formazione per imparare a utilizzarlo. Un’intuizione si è tradotta in un percorso scientifico.
Che cosa è accaduto che non era stato previsto? E che cosa, per contro, non è accaduto, cosa il progetto non è riuscito a realizzare? Questa nuova modalità di lavoro sul territorio che si prende cura dei minori dove gli attori non sono più solo istituzioni e terzo settore, ma esiste una comunità educante, che riunisce anche le famiglie, fragili e non solo, le scuole e le persone animate dal desiderio di fare qualcosa per gli altri, ha aperto le porte a molte progettualità. La più importante è Cuore Visconteo, un’alleanza molto ampia con capofila la Fondazione di Comunità Milano che mobilita una rete di enti non profit, enti locali e aziende per rimuovere le cause di povertà delle famiglie con figli minori, contenere le fratture prodotte dalla pandemia Covid 19 e favorire la ricostruzione dei legami tra le persone, valorizzando la dimensione comunitaria e le risorse locali. L’unico ambito su cui siamo stati poco performanti è stata la raccolta fondi, non è proprio fallita, abbiamo raccolto più di 35.000 euro, ma non siamo riusciti a raggiungere obiettivi che ci eravamo prefissati, ma forse il tempo era poco e il Covid non ha aiutato, in più non è usuale che un progetto che ha come ente capofila un’istituzione pubblica faccia fund raising e il territorio non era abituato. Siamo stati molto più efficaci nel people raising: 1000 persone sono state attive nel progetto nel tempo e 300 volontari sono coinvolti attivamente ancora. E abbiamo raggiunto quasi 4000 cittadini con le nostre iniziative.
Quali sono state le principali difficoltà? A volte per i servizi non è stato facile cambiare pelle: in questo progetto gli operatori dei servizi sono dovuti uscire dai luoghi tradizionali, non è scontato e c’è stata qualche resistenza organizzativa.
Inoltre, c’è ancora da lavorare perché quello che è successo nelle Case per Fare Insieme di Rozzano e Pieve accada anche negli altri luoghi. E infine è stato molto sfidante mettere costantemente in campo azioni perché il progetto non terminasse finito il finanziamento, continuare a cercare fondi.
C’è una storia che più di ogni altra racconta la trasformazione che il progetto ha generato? Non posso fare nomi e cognomi in questa circostanza, ma c’è una mamma che avevamo in carico che era a un passo dall’allontanamento dei figli quando è arrivata alla Casa per Fare insieme. Frequentando la casa, non solo è riuscita a ricostruire una relazione positiva con i figli, ma è diventata promotrice di un gruppo di mamme! Ha portato nella Casa altre mamme perché lei si era sentita ascoltata e accolta. Abbiamo evitato insieme un allontanamento, è una storia bellissima. Poi ci sono tante storie dei bambini, mi viene in mente un ragazzino che era stato in comunità. Al rientro in famiglia, quando il giudice tutelare ha voluto ascoltarlo lui ha chiesto che leggesse il suo quaderno “Da chi ho preso i miei occhi”. Il bambino è rimasto in famiglia e il giudice ha indicato nella prescrizione che continuasse a frequentare la Casa per Fare Insieme.
Che cosa resta sul territorio che prima non c’era? Le Case Per Fare Insieme dovevano essere 4 e sono diventate 6, nei comuni di Rozzano, Pieve Emanuele, Locate ed Opera. Connessioni è diventato un tavolo permanente con la scuola in cui adesso lavoriamo con un approccio di giustizia riparativa e un nuovo modo di affrontare il fenomeno del bullismo, i conflitti e la mediazione. Prima di Texére non sarebbe stato possibile: ci sono 600 alunni coinvolti e 60 insegnanti e sono entrate nel tavolo anche le associazioni che si occupano di giustizia riparativa. Tutto questo è accaduto grazie alle “connessioni” che si sono attivate.
Quali sono i progetti futuri a cui state pensando, innescati grazie anche all’esperienza e apprendimenti del progetto? Esiste Cuore Visconteo, un filone importantissimo che si è aperto grazie a Texére, il progetto di giustizia riparativa nelle scuole, stiamo costruendo una relazione con le parrocchie, e con tutti i luoghi aperti alla cittadinanza e meno connotati. E abbiamo partecipato a molte candidature per finanziamenti nazionali legati a progetti di contrasto alla fragilità delle famiglie di cui stiamo aspettando gli esiti.
Marta Balestrini, 20 anni, è una volontaria della Casa per Fare Insieme di Rozzano «abito a Rozzano e, quando ancora facevo il liceo, gli Scout mi hanno affidato come progetto di volontariato la partecipazione alle attività della Casa per Fare Insieme. Aveva aperto solo da un mese e non ne sapevo nulla. Con me c’era Chiara, una mia cara amica degli scout. Siamo arrivate lì e siamo rimaste stupite perché sembrava proprio una casa, poi gli educatori ci hanno coinvolte in una prima riunione e ci hanno chiesto che tipo di attività volevamo fare. Noi abbiamo deciso di seguire i bambini delle elementari durante il pomeriggio nell’aiuto dei compiti e nei laboratori creativi. All’inizio mi sentivo un po’ insicura, avevo paura di non essere adeguata, di toccare i tasti sbagliati o di proporre un’attività che non andava bene, perché non avevo la formazione degli educatori. Ma loro, fin da subito, ci hanno dato massima fiducia, potevamo proporre le attività liberamente, il programma non doveva ogni volta passare dalla loro approvazione. Ci siamo sentite a nostro agio e siamo cresciute anche noi. Magari è capitato che organizzassimo un’attività che per quell’età non era la più indicata ma sbagliare ci ha permesso di imparare e poi eravamo sempre coinvolte nelle riunioni con gli educatori, ci sentivamo ingaggiate a 360 gradi e si poteva parlare di tutto, percepivamo che, anche se eravamo “solo” delle volontarie, quello che avevamo da dare aveva valore. Ci sono stati moltissimi momenti belli, insieme ai bambini, con cui abbiamo organizzato laboratori di disegno, tornei e tantissime altre cose, ma anche con le mamme, come le merende. A turno le mamme facevano i dolci per le merende, oppure si preparavano insieme, così la mamma marocchina o quella egiziana ci insegnavano le loro ricette, era un modo di conoscersi meglio e conoscere le proprie storie attraverso cose semplici. Andavo lì una o due volte a settimana, incontravo sempre lo stesso gruppo, così ho avuto il tempo di costruire legami, di vedere la fiducia aumentare, nei bambini ma soprattutto nelle mamme che all’inizio erano più schive ma poi mi fermavano per la strada a chiacchierare quando mi incontravano. Anche le mamme via via sono state invitate alle riunioni, non erano più solo utenti della Casa, ma coinvolte nella gestione organizzativa
Questa per me è la forza delle Case: tutti si sentono una componente fondamentale della famiglia
Adesso faccio l’università e non riesco più a essere presente una volta alla settimana, ma sono ancora coinvolta nelle riunioni di progettazione e in alcune attività. Poco tempo fa io e Chiara abbiamo organizzato un aperitivo di scambio vestiti con i ragazzi della nostra età, volevamo far conoscere la Casa anche a loro, perché diventasse uno spazio anche per i giovani, per tutta la comunità di Rozzano. Vorremmo riproporlo quest’estate perché è andato benissimo ed è giusto sfruttare uno spazio così bello che abbiamo a disposizione. Un’ultima cosa: io studio medicina, ma Chiara ha deciso di iscriversi a Scienze dell’Educazione perché si è innamorata del lavoro che facevano gli educatori nella Casa!