Patti generativi: ecco come le difficoltà del singolo aiutano la comunità

Intervista alla responsabile dei Patti Generativi, lo strumento che aiuta chi si trova in difficoltà

Data di pubblicazione: 1 Settembre Set 2016 1719 01 settembre 2016
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“L’idea è quella di offrire un supporto alle persone in difficoltà che fino ad ora non hanno mai avuto bisogno dei servizi sociali, aiutandole anche a farle sentire meno sole.” E’ questa la sfida lanciata dai Patti Generativi, lo strumento disegnato nell’ambito di Fare Legami, il progetto sostenuto dal bando di Fondazione Cariplo, Welfare di Comunità e Innovazione Sociale, per raggiungere chi si trova in un momento di temporanea difficoltà. Abbiamo incontrato Annalisa Mazzoleni, assistente sociale responsabile dei Patti Generativi, per capire come funzionano questi strumenti e perché contribuiscono a rafforzare i legami con la comunità.

Come funzionano esattamente i patti generativi?

Si tratta di percorsi molto personalizzati, rivolti a persone che si trovano in un momento difficile. Per ogni persona coinvolta viene messo a disposizione un budget massimo di 2mila euro, grazie al quale, insieme agli operatori viene strutturata una risposta alle difficoltà che la persona si trova ad affrontare, a livello economico ma anche relazionale. Basti pensare ad esempio ad una coppia con bambini che, per lavoro, si trasferisce in un territorio nuovo, dove non ha reti di supporto. In quel caso al bisogno di conciliazione tra lavoro e famiglia si deve rispondere anche con lo sviluppo di un patrimonio relazionale. La cosa interessante è che non si lavora solo sui punti di debolezza ma anche e soprattutto sulle capacità e le risorse della persona, tanto che chi stipula il patto si impegna a mettere le proprie competenze a servizio della comunità a titolo volontario. Si risponde insomma ad un bisogno imminente del singolo, chiedendo però di sviluppare relazioni con la comunità circostante.

Perché la necessità di sviluppare questo tipo di strumento?

L’intenzione era quella di raggiungere le persone comuni, quelle che non hanno mai avuto bisogno dei servizi sociali, ma che si sono trovate in un momento di temporanea difficoltà. Abbiamo voluto disegnare dei percorsi personalizzati, che tenessero conto dei problemi dell’individuo, ma anche delle sue aspirazioni e che potessero fare leva sulle sue competenze, per fare sì che la persona potesse diventare più consapevole delle proprie capacità, aiutandola, in un momento di fragilità, ad acquisire anche una maggiore sicurezza in sé, per poi mettere le proprie risorse anche a servizio della comunità. Un circuito virtuoso insomma.

Qual è la storia che vi ha colpito di più?

Sono storie molto diverse e tutte sono speciali perché chiedono a chi si trova in difficoltà di mettersi in gioco in prima persona, facendo leva sulle proprie risorse, come Sara, una ragazza di trent’anni, nata e cresciuta in Italia, di origine mediorientale, che ha stipulato un patto. Dopo essersi sposata ed essere diventata mamma molto giovane, Sara aveva capito che fare la casalinga non le bastava più, voleva tornare a studiare a formarsi e cominciare a lavorare. I patti vengono cuciti addosso alle persone, a seconda delle loro abilità e competenze. E così è stato anche nel caso di questa ragazza che voleva sondare la possibilità di potersi iscrivere ad una scuola di cucina per poter poi, in futuro, diventare cuoca. Siamo partiti proprio da questa sua passione: Sara si è iscritta ad un corso di cucina, pensato per persone disabili, perché dal suo profilo era emersa anche una sensibilità per il mondo della disabilità, qui ha sperimentato il suo interesse, cercando di capire se riscriversi a scuola potesse davvero rappresentare una scelta fattibile. Oltre alla retta del corso, il patto ha inoltre coperto le spese di babysitteraggio, di trasporto e anche di supporto psicologico e di orientamento che questo strumento prevede, e non si è fermato qui. Sara si è offerta di ricambiare il sostegno della comunità, mettendo le proprie risorse a servizio di chi ha bisogno, diventando così mediatrice linguistica in un corso di alfabetizzazione per donne straniere. Se una delle difficoltà di questa ragazza era anche il fatto di sentirsi sola, il patto ha lavorato davvero su due livelli: quello formativo e quello relazionale.

Qual è l’aspetto che vi ha sorpreso maggiormente lavorando con questo nuovo strumento?

Sicuramente la creatività che è stata messa in campo per creare delle azioni che siano davvero generative e, partendo dal singolo, arrivino poi a beneficiare tutta la comunità. Le storie che sono arrivate ci raccontano delle difficoltà quotidiane che hanno le persone della porta accanto, quelle che mai prima d’ora si sono rivolte ai servizi sociali e che più di tutte fanno fatica a chiedere aiuto. Tra chi ha stipulato i patti vi sono anche persone ancora giovani, per cui l’aspetto economico e lavorativo non è un problema, ma che all’improvviso, per ragioni diverse, si sono trovate sole. Con loro si lavora soprattutto su un piano relazionale e aiutare queste persone è fondamentale, perché la solitudine può facilmente portare a un calo di motivazione, alla perdita dell’equilibrio e addirittura alla depressione. I patti partono dal presupposto che la comunità si curi da sé e ciò che abbiamo visto in questo primo anno, ci fa davvero pensare che questo sia possibile.