La salute mentale ha bisogno di comunità

Per curare il disagio mentale aMIcittà ha sperimentato con successo 63 “budget di salute di comunità”

Data di pubblicazione: 17 Febbraio Feb 2022 1327 17 febbraio 2022

«La nostra soddisfazione è aver sperimentato un metodo che ci sembra abbia funzionato bene e che può essere disseminato. I budget di salute di comunità hanno dimostrato di essere strumenti validi e realmente alternativi rispetto a risposte più standardizzate». A meno di tre anni dall’avvio di aMIcittà, uno dei progetti della IV edizione del bando Welfare di Comunità di Fondazione Cariplo, sono 63 i budget di salute (rispetto ai 60 previsti all’avvio) attivati. Quando aMIcittà nasce nel 2019 (all’interno del Dipartimento di Salute Mentale dell’ASST Grande Ospedale Metropolitano di Niguarda) l’obiettivo è quello di promuovere lo sviluppo di una comunità accogliente e inclusiva, affiancando le persone con disagio psichico nel costruire il proprio progetto di vita e nel rappresentare una risorsa per gli altri. Lo strumento che viene individuato è il “budget di salute di comunità”. Ma se il “budget di salute” in ambito psichiatrico costituisce da tempo uno strumento alternativo all’inserimento in strutture psichiatriche che ricompone le risorse economiche per costruire un percorso individualizzato, il progetto aMIcittà, a partire dal principio, vi aggiunge la parola “comunità”. Racconta Davide Motto, project leader di aMIcittà:

Abbiamo chiamato così il nostro modello per sottolineare la dimensione comunitaria. Non si realizza un progetto sul territorio se non si lavora anche sulla comunità, dal vicino di casa al luogo dove realizzare un tirocinio. Quando si parla di salute mentale ci si confronta anche con il pregiudizio e bisogna prima di tutto scalfire quel pregiudizio, coinvolgendo le persone. Spesso la comunità, anche dove si sperimentano i budget di salute, rimane invece sullo sfondo

Davide Motto, project leader di aMIcittà
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Continua Motto: «I primi otto mesi del progetto sono stati dedicati a definire il nostro modello e poi siamo partiti con i percorsi individualizzati, a partire dall’ascolto dei beneficiari, dalle loro idee e dalle loro speranze e bisogni. I tre assi di intervento principali riguardano l’abitare, capire se la situazione abitativa della persona è funzionale, se può servire un supporto a domicilio, per esempio per recuperare o imparare abilità relative alla vita in autonomia, dal fare la spesa o attivare lo Spid, o è possibile l’inserimento in un appartamento in co-housing. Poi c’è quello relativo al lavoro, che può comprendere l’inserimento lavorativo o la formazione. E infine c’è l’asse dell’inclusione sociale. E lì entra in gioco la connessione con la comunità: dalla palestra, all’ente culturale, alla parrocchia disponibili a intraprendere un pezzetto del progetto.

La comunità non è solo quella strutturata, ma è quella peculiare di ogni persona, la sua rete naturale: un ex compagno di classe, un amico, un vicino di casa, persone legate alla sua storia passata e presente

aMIcittà, per tutti i suoi 63 beneficiari, ha quindi composto una microéquipe che comprende, oltre agli operatori, gli Esp (Esperti in Supporto tra Pari, persone che hanno elaborato un proprio vissuto di difficoltà psicologiche personali come utente psichiatrico e che ora mettono a disposizione le proprie esperienze di vita) e queste reti naturali, rappresentate da «persone che abbiamo individuato e contattato ovviamente parlando con il beneficiario» specifica Motto. «Queste figure, nella riuscita dei percorsi si sono dimostrate essenziali, ci hanno permesso di arrivare dove gli operatori non arrivavano. Vicini di casa che ci hanno detto: “capivo che c’erano dei problemi ma non ho mai osato suonare il campanello per non disturbare”. Esiste una comunità che desidera essere di aiuto, e da una parte abbiamo dato un ruolo a queste persone, dall’altra abbiamo garantito loro il supporto di un accompagnamento, un contesto dove loro sanno che se ci sono delle difficoltà possiamo intervenire.

Sia questi facilitatori naturali sia gli Esp sono stati e sono davvero significativi per la riuscita dei budget di salute. Anche se ogni percorso è diverso, è un lavoro di cucitura continua, perché cambiano le richieste e i bisogni anche in corso d’opera e ognuno può o vuole raggiungere traguardi diversi

Rimettersi in moto quando a lungo si era rimasti chiusi in casa, riuscire a vivere da soli, fare la patente o la richiesta di una casa popolare, c’è un po’ la storia di aMIcittà nelle storie di Marino, Giuseppe e Paolo. Hanno acconsentito a raccontarla in una telefonata a tre. Le loro voci si sovrappongono e dopo le iniziali esitazioni e paure, le emozioni e la voglia di trasmetterle affiorano. Paolo Macchia è un utente Esp di aMIcittà, Marino Soncini e Giuseppe D’Alasco, rispettivamente 51 e 38 anni, sono due beneficiari che hanno firmato il patto del budget di salute. «Ho un problema di disabilità fisica e mi creava così tanta vergogna che non uscivo più di casa. Pensavo solo ai miei piedi storti e non facevo nulla tutto il giorno» dice Marino. Quando entra in aMIcittà, Paolo è l’utente Esp che fa parte della sua équipe: «abbiamo iniziato ad alternare momenti di socializzazione a momenti per la riacquisizione o acquisizione delle abilità del quotidiano, preparavamo insieme la cena» spiega, «Ho imparato a cucinare e adesso esco, con Paolo ma anche con altri amici del CPS. Ho iniziato ad accettare di più il mio difetto fisico e la mia vita è cambiata in meglio» aggiunge Marino. Continua Paolo: «Marino mi era stato dipinto come una persona irascibile, era considerato un utente po’ difficile, che spesso rispondeva male. Con me non ha mai avuto nessuna reazione di questo tipo, abbiamo stabilito una relazione da subito e anche i miei colleghi si sono stupiti». Conferma Marino: «Paolo mi ha trattato in un altro modo rispetto agli altri, mi è venuto più facile aprirmi. Prima con lui, adesso anche con gli altri. Ci vediamo due volte a settimana, una volta usciamo e un’altra cuciniamo. Ho imparato a fare l’arrosto e le cotolette e molte altre cose».Anche il supporto di Paolo a Giuseppe prevede due incontri a settimana: «ho la patente ma non ho la macchina. Usiamo quella di Paolo quando usciamo, ultimamente spesso facciamo acquisti per la casa». Giuseppe da due mesi abita da solo in una casa popolare a Bruzzano, un traguardo importantissimo per lui, che ha vissuto sei anni in una comunità psichiatrica: «sono crollato quando è morto mio padre. Soffrivo di un’ansia paralizzante.

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Dopo la comunità, tramite aMIcittà sono andato ad abitare in un co-housing. Ma desideravo vivere solo, anche se allo stesso tempo era un passo che temevo un po’. La mia vita è una lotta continua tra il cadere e il rialzarmi. La prima sera che ho dormito da solo ero emozionato, sembrava tutto silenzioso. Adesso sto prendendo confidenza con il mio appartamento. Ho comprato i mobili con le educatrici, mi hanno aiutato soprattutto per la cucina, ma il salotto l’ho scelto proprio come volevo.

Giuseppe D'Alasco

Faccio ancora molta fatica a gestire i soldi e ho un amministratore di sostegno e per le pratiche da sbrigare c’è Paolo», «Non mi sostituisco a lui, lo aiuto» precisa Paolo. Ci sono le “giornate no” come le definisce Paolo, quelle in cui Giuseppe ha bisogno di isolarsi: «sparisco dal radar, fa parte del mio essere, non ho voglia di relazionarmi con la gente. Ma sono sempre di meno quelle in cui mi sento così. Il prossimo passo è il lavoro e imparare a gestire meglio il denaro. Ho sempre avuto le “mani bucate”, ma se vinco alla lotteria aiuto tutte le persone che mi stanno aiutando» scherza Giuseppe.

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