«Viviamo un tempo difficile, un tempo di incertezza, un’incertezza che riguarda tutti. Fra le categorie che più di altre stanno subendo le conseguenze di questa situazione, ci sono le persone che soffrono di disturbi mentali e gli artisti del teatro indipendente, e proprio questi sono gli ingredienti della Compagnia Laboratorio Metamorfosi, creata da Teatro19 all’interno di Recovery Net».
Una delle azioni di Recovery Net, uno dei progetti della quarta edizione del bando “Welfare di Comunità” di Fondazione Cariplo, è quella di favorire una rappresentazione positiva della salute mentale attraverso azioni culturali. Con l’intento di diffondere la cultura della conoscenza della salute mentale per combattere lo stigma legato ai disturbi psichiatrici, ma anche la cultura per la salute mentale. È provata e riconosciuta anche dall’Oms, infatti, l’azione benefica che le arti e la cultura esercitano sulla gestione e il trattamento dei disturbi mentali gravi.
Recovery.Net è attivo nelle province di Brescia e Mantova e opera per aiutare le persone con disagio psichico, in collaborazione con le risorse sul territorio, ma al di fuori dall’istituzione psichiatrica.
Tra le iniziative sviluppate in ambito culturale ci sono la Biblioteca Vivente, il Laboratori di Scrittura Emotiva e il Concorso Letterario dal titolo “Il confine: tra muri, siepi e ponti” i laboratori di scrittura emotiva, Serendippo la trasmissione radiofonica su “tutto ciò che nella vita di ogni giorno fa salute mentale”, a cura di un gruppo di lavoro costituito da Teatro19 con utenti e operatori dell’Uop23 e il Metamorfosi Festival, un progetto ideato da Teatro19 con l’Unità Operativa di Psichiatria n.23 degli Spedali Civili di Brescia. Un evento che coinvolge teatro, cinema, workshop, incontri e che è frutto di un lavoro di co-progettazione condivisa tra artisti, operatori, utenti dei servizi e cittadini.
Perché chiamare un festival Metamorfosi?
Perché l’ingrediente “magico” che abbiamo scoperto attraverso la relazione Arte/Fragilità/Diversità è la possibilità di una trasformazione che il contatto con il dolore ci dà. La fragilità diventa un valore perché mette in crisi abitudini, modi di lavorare, meccanismi e diventa fonte di ispirazione per il teatro: un’arte profondamente umana, i cui strumenti sono il corpo, l’anima e l’immaginazione. L’attore e la persona con un disturbo psichico hanno in comune molte cose, una di queste è la necessità di lavorare su sé stessi. A entrambi spetta un lavoro quotidiano di allineamento del corpo e dello spirito, un paziente addestramento alla concentrazione, all’ascolto di sé e del mondo, alla relazione.
A parlare è Valeria Battaini, una delle direttrici artistiche di Teatro19: «Collaboriamo da diversi anni con Recovery Net e con pazienti inseriti nei centri psicosociali. Il percorso di cura è stabilito insieme e, nella maggior parte dei casi, parte dai laboratori teatrali di base. Ma alcuni dei pazienti che hanno partecipato ai laboratori teatrali sono diventati parte di una compagnia stabile. Nel gruppo c’è quindi un rapporto totalmente paritetico tra attori e i pazienti, la ricerca teatrale e artistica viene definita insieme. Io non conosco le diagnosi e le patologie degli utenti, so solo che hanno scelto di assumersi un impegno, che è un percorso artistico e umano. Lo scambio è sicuramente reciproco, il teatro si fa con la relazione, ogni persona è uno scrigno e una sorpresa. Noi ci confrontiamo con persone non professioniste che si avvicinano con una purezza che è molto preziosa. Da parte nostra siamo invitati a sviluppare una capacità profonda di ascolto perché ogni paziente si porta dietro una sofferenza particolare che innesca un linguaggio a sé stante, è un po’ come se ognuno avesse un suo vocabolario. Certo ci sono momenti di stanchezza perché la malattia psichiatrica spesso è molto difficile da “leggere”: a volte non riesci a distinguere tra sintomi e carattere e non sai come scardinare alcune dinamiche perché magari sono legate a patologie, devi sempre metterti in gioco per trovare nuove strade. Gli utenti anche si ritrovano in un contesto completamente nuovo perché sono abituati a essere trattati come malati, invece nel contesto teatrale ogni diversità ha una sua legittimità, è un contesto inclusivo perché la diversità è una fonte preziosa di suggestione artistica. Ci sono stati momenti che ci hanno messo di fronte a difficoltà, per esempio due anni fa, mentre preparavamo il Festival Metamorfosi, quando ci siamo spostati in teatro a fare le prove il nuovo luogo in alcuni utenti ha scatenato ansie di prestazione, tensioni, conflitti, stavamo per non andare in scena ma alla fine ci siamo riusciti. E l’anno dopo abbiamo capito che sarebbe stato meglio costruire uno spettacolo “site specific” ovvero progettato drammaturgicamente appositamente per quel luogo, dopotutto anche noi impariamo facendo.
La pandemia condizionerà anche questa edizione del festival, ma non la cancellerà: «Proseguiamo la nostra attività anche se a distanza. Abbiamo dato vita a laboratori online che abbiamo chiamato “dell’incertezza” in cui realizziamo, ognuno con il suo pezzettino, alcuni video che proietteremo al Festival nella prossima edizione, a fine febbraio. Non tutti gli utenti hanno voluto partecipare purtroppo, perché alcuni di loro hanno poca dimestichezza con la tecnologia. È tutto più difficile perché manca il contatto, ma le relazioni che abbiamo costruito sono forti. Non vediamo l’ora di tornare a incontrarci però anche i pazienti sono stati obbligati, come noi, a trovare vie non ancora battute e a sviluppare nuove capacità e i video ci insegnano a sperimentarci in un altro modo».
Daniele, 30 anni, è uno dei pazienti del CPS di Via Romiglia di Brescia e fa parte della compagnia stabile di Teatro19. Il teatro è la prima attività a cui ha aderito: «Sono seguito dal CPS da quasi 6 anni, prima da vari psicologi che, in diversi momenti, mi proponevano attività a cui non ho mai voluto partecipare. Al CPS mi hanno proposto in una prima fase un corso sulla “Comunicazione e l’ascolto”: “Dani, tu che hai un po’ di difficoltà a esprimerti potresti essere la persona giusta per parlare agli altri del tuo disagio a parlare e aiutarli”. Ci ho provato e in parte ha funzionato. Poi, dopo il corso base di teatro, è arrivata anche la proposta di entrare in modo stabile nella compagnia nell’ambito del progetto Recovery Net, io stesso mi ero fatto avanti dopo aver visto uno spettacolo, li guardavo e pensavo: “L’anno prossimo voglio esserci anche io”. In un certo senso mi sono sfidato, ho capito che c’era una parte di me che voleva emergere, a cui piace esibirsi, essere anche un po’ protagonista. Che non significa essere il protagonista negli spettacoli anche perché, nella nostra compagnia, non c’è quasi mai il protagonista. Il momento più pauroso è stata la prima volta che siamo andati in scena, non avevo paura di dimenticarmi le battute, ma c’erano anche i movimenti, non sapevo se sarei riuscito a coordinare tutto. La cosa più bella del teatro è che mi dà la possibilità di esprimere una parte di me che nella vita di tutti i giorni non riesco a mostrare. E poi che, mentre nella quotidianità non mi piace per niente che le persone si concentrino su di me, quando faccio teatro questo problema sparisce e sparisce anche il terrore del giudizio.
Forse tutto è più facile perché il copione è la mia guida e nella vita di tutti i giorni la guida me la devo dare sa solo. Però anche nel mestiere di attore ci sono molti imprevisti da gestire, per esempio un altro personaggio che non si ricorda una battuta. Questo succede anche nella vita, e lo so che è anche la sua bellezza, le persone che lo negano sbagliano perché la vita è un imprevisto.
Mi sento molto trasformato dal teatro, un operatore mi ha detto che da quando mi ha visto la prima volta sono cambiato completamente. Anche io lo credo, ma non sono ancora arrivato dove voglio: ho ancora bisogno di guide e invece vorrei diventare più autonomo, emanciparmi anche dalla mia famiglia, lavorare, ho un diploma di liceo scientifico. Ah dimenticavo: ho fatto parte di un altro piccolo progetto con due attrici, uno spettacolo che si chiamava “Memoria del fiorire”, siamo riusciti a fare tre repliche prima dell’arrivo del Covid. Non si parlava solo del fiorire delle piante, ma della fioritura in generale. E sì, un po’ sono fiorito anche io».
Un progetto per esplorare sguardi nuovi, per cambiare punto di vista, per provare a condividere salute e non malattia mentale, liberando il potenziale creativo della marginalità.