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Prossimità, attivazione, legami per rispondere alle nuove povertà. Che cosa resta sul territorio di Pavia grazie a Fare#Benecomune

Data di pubblicazione: 26 Giugno Giu 2023 0942 26 giugno 2023

Il progetto Fare#BeneComune nasce alla fine del 2018, prima della pandemia. “Un’era geologica fa” come dice Marco Cau, il project manager. Ma Il Covid è stato il terremoto che ha aggravato, come in tante altre situazioni, problemi che già esistevano: «nell’area di Pavia, dove è stato sviluppato Fare#Benecomune, anche prima della pandemia, c’era una fascia grigia di nuove povertà, persone e famiglie non raggiunte dai servizi sociali a rischio di cadere da una situazione economica e sociale precaria, a una vera fragilità. Famiglie che magari fino a un certo punto avevano potuto garantirsi un livello dignitoso di vita ma che si erano poi scontrate con eventi negativi improvvisi o con situazioni di conflitto che avevano messo in crisi equilibri soggettivi, relazionali e sociali e anche economici. Siamo partiti da questa realtà e dalla volontà di attrezzarci per rispondere ai bisogni di questa fascia grigia con un progetto in cui il welfare pubblico riuscisse a dialogare con il welfare di comunità per costruire un sistema territoriale più capace di agganciare tale fascia».

Fare#Benecomune, sostenuto dalla quarta edizione del programma Welfare di Comunità di Fondazione Cariplo, nasce infatti da un partenariato tra un ente pubblico in qualità di capofila, il Consorzio Sociale Pavese, e una rete di enti del terzo settore:

Anche prima di Fare#Benecomune i soggetti istituzionali e del terzo settore avevano realizzato progetti in partenariato ma mancava l’idea di lavorare pubblico-privato in maniera più strategica per costruire politiche più capaci di agganciare queste povertà Noi siamo partiti dalla volontà di sperimentare risposte flessibili e personalizzate, in una logica non assistenzialistica

Marco Cau, project manager di Fare#BeneComune

Il senso profondo delle parole di Cau, quello di una risposta “flessibile e personalizzata in una logica non assistenzialistica” è racchiuso nella storia di Lucrezia (nome di fantasia), che ora ha 21 anni ma che quando ha incontrato Elisa, un’operatrice di Fare#Benecomune, ne aveva solo 18. Per una serie di circostanze della vita che lei preferisce non raccontare, Lucrezia è di fatto sola davanti a situazioni che sono molto più grandi di quelle che una ragazza della sua età dovrebbe affrontare: «stavo iniziando un nuovo capitolo della mia esistenza. Avevo finito le scuole superiori e volevo iscrivermi all’università. Ci tenevo tantissimo, per me era la cosa più importante. Ma l’equilibrio intorno a me si era rotto, nessuno si poteva più occupare di me e io banalmente non avevo più nemmeno la certezza di una casa. Ero maggiorenne, ma completamente disorientata di fronte alle cose grandi, ma anche alle più piccole. Come l’iter per iscrivermi all’università, l’esistenza di bandi e borse di studio. E poi c’era anche il tema economico: se volevo studiare, dovevo lavorare ma non sapevo nemmeno come scrivere un cv».

Elisa diventa il tutor famigliare di Lucrezia nell’Azione Famiglie di Fare#Benecomune e insieme a lei, oltre a una relazione che Lucrezia definisce “uno dei pilastri della mia vita”, costruisce un percorso di supporto per orientarsi negli studi e nella ricerca del lavoro.

Continua Cau: «La complessità e la multidimensionalità di queste nuove situazioni di impoverimento economico e relazionale richiedevano la capacità di essere più vicini alle persone, di ricostruire legami fiduciari e di ridare senso e visibilità alla presenza istituzionale e sociale nei luoghi di vita e di relazione. Ma anche di fare leva sull’attivazione delle persone stesse e sulla mobilitazione delle tante risorse del territorio (associazionismo ma anche gruppi informali e microreti di solidarietà) che spesso agivano in modo frammentato e discontinuo, senza una visione comune e strumenti condivisi. E quindi quello che si è fatto è stato lavorare molto sui tavoli di progettazione partecipata per creare una rete sempre più ampia, per portare nuove risorse al progetto principale con un effetto moltiplicatore».

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Fare#Benecomune si articola dunque in più direzioni: il coinvolgimento in prima persona delle famiglie che non erano conosciute dai servizi ma che vivevano situazioni di difficoltà e che sono state intercettate attraverso modalità diversificate (sportelli, centri di ascolto, laboratori sociali, scuole). La creazione di nuove opportunità di incontro e di interazione sociale (in particolare per i minori e i giovani), la realizzazione di una rete di presidi di prossimità (i Laboratori Sociali) animati da istituzioni locali, terzo settore e cittadini attivi.

I laboratori sociali diventano il cuore del progetto, come spiega Cau: «Prima di Fare#Benecomune nel nostro territorio non esistevano luoghi dove esercitare iniziative di welfare di comunità nei quartieri. Volevamo creare spazi per agganciare le persone con fragilità ma anche di emancipazione e protagonismo dei cittadini di quel quartiere. Alcuni erano spazi già attivi, ma magari sottoutilizzati e comunque non connessi tra di loro, luoghi per doposcuola per i minori, ma anche spazi per le famiglie, social bistrot, biblioteche che volevamo trasformare in spazi di prossimità vicini alle persone e di riferimento per il quartiere».

Cinque anni dopo, ci sono 4.669 famiglie che sono state coinvolte in attività di incontro e di laboratorio e oltre 1.200 minori e neomaggiorenni, ma soprattutto: «oggi c’è una rete di laboratori sociali a disposizione della comunità. Un’altra cosa importante è che i nuovi Sportelli Famiglia sono stati collocati nell’infrastruttura dei Laboratori Sociali nati con #FareBenecomune, ci siamo riusciti perché tutti i soggetti hanno lavorato in rete. E i Laboratori sono stati apprezzati dai cittadini perché sono spazi non connotati e ospitali, dove si possono trovare il corso di lingua per stranieri ma anche lo spazio gioco per bambini, o la possibilità di sistemare insieme l’aiuola dei giardini.

Spazi sociali a trecentossessanta gradi dove poi esiste anche uno Sportello Famiglia, che ti aiuta a rispondere alle tue preoccupazioni materiali, dove incontri un operatore che ti accoglie e che ti mette in relazione, soltanto se necessario, con i servizi sociali territoriali.

E che magari è proprio quello con cui hai già fatto la festa di comunità o da cui hai portato tuo figlio al laboratorio di lettura. Il welfare è uscito dai suoi spazi tradizionali ed è stato collocato negli spazi di comunità e in questo contesto le persone hanno trovato risposte ai loro bisogni più flessibili e meno connotate».

Nei Laboratori Sociali, le persone con bisogni che sono chiamate “beneficiarie” sono spesso diventate risorse per la comunità, un’inversione di ruoli che è centro e anima del Welfare di Comunità: «In un laboratorio sociale è stato allestito un centro per il “riuso” dove raccogliere oggetti, vestiti, giocattoli per metterle a disposizione delle famiglie del quartiere. C’erano alcune mamme che frequentavano il doposcuola del laboratorio e che, nella prima fase della guerra in Ucraina, si sono messe a disposizione per aiutare i volontari che preparavano i pacchi da inviare in Ucraina (ndr. abbiamo raccontato la storia di una di queste mamme, quella di Khadja Rachad, in questo articolo). In un altro spazio, dove si tenevano i laboratori di lettura per bambini, alcuni utenti sono diventati volontari per aiutare a sistemare e catalogare i libri. Ci sono state tante situazioni in cui i beneficiari sono diventati utenti attivi. Anche quando venivano organizzate attività tradizionali per le famiglie, come counseling, formazione, letture animate, laboratori di cucito, animazioni per bambini, abbiamo visto che, se erano collocate nello spazio dei laboratori sociali, succedevano sempre cose inaspettate.

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Per esempio, nel laboratorio chiamato “Social bistrot” si tenevano percorsi di educazione alimentare rivolti alle famiglie. Ma il laboratorio è posto proprio sulla strada, in un vero bar. E quindi poi si preparava la merenda insieme: andare verso le persone è anche questo

Continua Cau: «i Laboratori Sociali hanno tante fonti di ispirazioni fuori Pavia, come gli “Open cafè” del rhodense o “Le case per fare insieme” di Rozzano, che sono altri progetti sostenuti nel programma di Fondazione Cariplo. Abbiamo lavorato insieme agli operatori di questi progetti per distillare nella nostra esperienza modalità già avviate nei loro modelli. Anche grazie a questo confronto è nato un Manifesto dei Laboratori Sociali di Pavia, che illustra cosa sono i Laboratori Sociali e presenta la modalità d’azione e partecipazione e il metodo di lavoro: è uno strumento da diffondere in città, appendere alle bacheche degli spazi pubblici e privati, usare per allargare la rete delle collaborazioni. I Laboratori Sociali non sono un’innovazione in assoluto ma a Pavia non esistevano e ora sono un modello che resta».

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Come ogni altro progetto della quarta edizione del programma Welfare di Comunità, anche Fare#Benecomune è stato sorpreso dal Covid: «Quando è scoppiata la pandemia, eravamo a poco più di un anno dall’inizio. Abbiamo capito subito che il più grande bisogno per le famiglie vulnerabili con minori era legato alla dispersione scolastica. Così è nato un grande lavoro con le scuole che non erano né partner nè soggetti di rete, ma in quel momento il problema era lì: negli strumenti per la Dad, computer, connessione, anche nella necessità di seguire i ragazzini per evitare la dispersione scolastica. Abbiamo attivato risorse insieme al servizio sociale, al terzo settore, alle scuole e creato un gruppo di lavoro a distanza. Abbiamo realizzato raccolte fondi per comprare gli strumenti didattici e gli operatori sono diventati tutor per l’affiancamento ai ragazzi. È stata un’occasione per aprire un dialogo con le scuole e per applicare la logica del Laboratorio Sociale, ovvero quella di andare verso le persone, in una modalità diversa, quando ovviamente l’ultima cosa che si poteva fare era andare verso le persone fisicamente».

Oltre al Covid, il progetto ha incontrato anche altre difficoltà o risultati che sono stati raggiunti solo parzialmente: «dal mio punto di vista esiste una difficoltà che potrei definire strutturale in questi progetti. Perché sono davvero “ad alta intensità di ingaggio” degli operatori, un conto è fare l’educatore, un altro essere un promotore di comunità del laboratorio sociale, un agente di sviluppo di quartiere. La professionalità e le competenze richieste agli educatori e agli assistenti sociali che lavorano su questi temi aumentano ma non la retribuzione. Ho visto un lavoro straordinario ma il rischio di tante ore regalate all’attivismo è quello di burn out. Se lavori in una logica preventiva come cerchiamo di fare noi, riduci il carico sui servizi, ma su questo c’è tanta strada da fare in termini di investimenti.

Per quanto riguarda invece quello che il progetto non è riuscito del tutto a realizzare, direi che nel migliore dei mondi possibili e senza il Covid, avremmo potuto fare un ulteriore salto di qualità. Questa cosa è accaduta solo parzialmente, per esempio nel Laboratorio Sociale Crosione, che è stato oggetto di un percorso di co-progettazione ai sensi del Codice del Terzo Settore finalizzato a definire l’accordo di partenariato per la sua gestione e in generale con la collocazione degli Sportelli Famiglia nei Laboratori. Però un punto di debolezza resta, la tenuta nel tempo, soprattutto se è sempre necessario cercare finanziamenti aggiuntivi per dare contenuto ai Laboratori Sociali».

Nonostante questo, #FareBenecomune è ancora il volano di un percorso che non finisce qui: «Oltre agli spazi che rimangono sul territorio, esiste una capacità di tutti i soggetti che hanno lavorato insieme di progettare anche per essere in grado di portare risorse. Un “allenamento a fare insieme” che è stato anche valorizzato recentemente nella costruzione del progetto a valere sulla Linea 3 del Fondo Povertà, anch’esso sostenuto da Fondazione Cariplo. Inoltre, quando il Consorzio Pavese ha svolto la coprogrammazione del Piano Sociale di Zona 2021-2023, ha fatto tesoro dell’esperienza di Fare#Benecomune e ha coinvolto più di cinquanta enti e più di centoquaranta persone in tavoli di lavoro: un processo e dei numeri che non si sarebbero mai raggiunti senza l’esperienza di questi anni».

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Oltre ai numeri e ai processi, rimangono le esperienze delle persone, quelle coinvolte nelle preziose risposte flessibili e personalizzate. Come quella di Lucrezia, che adesso frequenta il terzo anno di università e lavora come commessa part time: «mandare un cv, consultare le piattaforme di ricerca e offerta di lavoro, fare l’application per una borsa di studio sono tutte azioni che ora fanno parte della mia quotidianità, che mi sembrano assolutamente naturali. Tutti questi insegnamenti li devo a Elisa, che è stata ed è tuttora il mio punto di riferimento. È stata al mio fianco quando mi sentivo catapultata in una situazione ingiusta e ingestibile, quando il senso di solitudine era così profondo che non riuscivo a capire da dove partire per affrontare tutto. Abbiamo fatto una cosa alla volta e con il tempo e anche tra diverse difficoltà perché ho incontrato anche datori di lavoro che mi hanno sfruttata e sottopagata, ho imparato a muovermi. Devo tanto a lei, e un po’ anche a me stessa perché, pur nell’immaturità dei miei diciotto anni, ho saputo prendere la mano che mi veniva offerta, a non sprecare l’occasione di questo aiuto. Tante volte ancora mi viene il magone perché vorrei avere una mamma che ti dice andrà tutto bene e che ti fa una carezza, invece devo accarezzarmi da sola, e in alcuni momenti le difficoltà mi sembrano montagne. Però sempre di più anche colline. Mi rincuora sapere che non sono l’unica studentessa lavoratrice al mondo, e nemmeno l’unica in una situazione difficile. Ma anche che ci sono adulti come Elisa su cui posso contare. Voglio finire gli studi in fretta e trovare un bel lavoro, avere la mia casetta e mangiare quello che voglio sul mio divano. Ricominciare da capo nella versione migliore di me».