«La relazione tra ente pubblico e associazioni di volontariato e terzo settore è descritta spesso come una “supplenza”: dove non arriva l’ente pubblico, entrano in gioco terzo settore e volontariato. Abbiamo immaginato e costruito Recovery Net da una prospettiva diversa, di complementarietà. Il nostro punto di partenza era la consapevolezza che ente pubblico e rete territoriale hanno competenze e risorse diverse e ognuno deve spendere le sue, mettendole a fattor comune».
Gianpaolo Scarsato è il coordinatore di Recovery Net uno dei progetti sostenuti dal programma “Welfare in azione” di Fondazione Cariplo. Una rete nata nel 2017 nelle province di Brescia e Mantova-con Asst Spedali Civili come ente capofila-costituita da aziende sociosanitarie, cooperative sociali, università, associazioni di famigliari, utenti e cittadini che opera per aiutare le persone con disagio psichico, in collaborazione con le risorse sul territorio, ma al di fuori dall’istituzione psichiatrica.
«Quando siamo partiti il sistema dei Servizi per la salute mentale prevedeva un forte investimento ma prevalentemente concentrato nelle comunità residenziali psichiatriche, c’erano sì i centri psicosociali, l’assistenza domiciliare, ma mancava un’integrazione operativa con le comunità locali. Abbiamo costruito un partenariato insieme alle risorse del terzo settore, del volontariato e agli ESP (acronimo che definisce gli esperti di supporto alla pari, pazienti che vivono o hanno vissuto il disagio psichico e che diventano operatori della salute mentale) e ai famigliari, per portare fin da subito nel progetto il loro punto di vista».
Dalla nascita di Recovery Net sono passati 4 anni, 595 nuovi beneficiari sono stati presi in carico, 143 nuovi volontari hanno partecipato al progetto e più di 77.000 persone sono state raggiunte dalle iniziative. L’attività di fundraising ha raccolto quasi 250.000 euro e 168 aziende sono state coinvolte attivamente ma soprattutto
Recovery.Net è stato, per il campo della salute mentale, una vera e propria innovazione di sistema, con l’introduzione di nuove competenze e di un modello di lavoro rispetto al quale è difficile che si torni indietro
Cuore del progetto sono stati i più di 100 percorsi individuali attivati nei quali è stata sperimentata la “Mental Health Recovery Star”. Uno strumento nato in Inghilterra per supportare l’utente ed il suo operatore nella definizione, nel monitoraggio e nella valutazione dei percorsi di cura e riabilitazione basati sui principi delle pratiche orientate alla guaribilità. Spiega Scarsato: «Abbiamo formato gli operatori del progetto all’utilizzo di Mental Health Recovery Star, che si è rivelato uno strumento molto efficace per stimolare la partecipazione attiva e la responsabilizzazione degli utenti e della loro rete naturale nell’individuazione e nel raggiungimento di obiettivi dei piani di trattamento individualizzati».
Intorno a quella che Scarsato definisce “l’ossatura” del progetto, ovvero i percorsi personalizzati, sono nate le altre azioni, quali il l Recovery College, corsi di formazione orientati a favorire conoscenze legate al benessere individuale, che hanno coinvolto pazienti sia come partecipanti, ma anche nella progettazione e come docenti, oltre a «tante persone estranee ai servizi perché i corsi erano aperti alla cittadinanza».
Sono stati aperti I Recovery Co-Lab, spazi informali di incontro e socializzazione per dare visibilità al tema della salute mentale, laboratori sperimentali dove vengono proposte diverse attività e iniziative: «Non c’era niente di simile prima né a Mantova, né a Brescia» dice Scarsato
Ma noi eravamo convinti che esserci in un territorio significava anche essere dentro un luogo fisico
Il progetto ci ha permesso di aprire tre Co-Lab, a Brescia nel quartiere di edilizia popolare San Polo. Essere lì è molto importante per noi: sia praticamente che simbolicamente, perché è un modo per riqualificare lo spazio e contrastare il degrado e per intercettare i bisogni delle persone. Che non sono solo quelli dei pazienti ma anche dei molti famigliari che bussano da noi» (abbiamo parlato del Co-Lab di Brescia in questo articolo). «A Mantova ne abbiamo aperti due, uno di questi sul territorio di Castiglione delle Stiviere in sinergia con il Comune e con la Rems (ndr: le Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza che hanno sostituito gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari) dove erano ricoverati pazienti con misure restrittive che, grazie al Co-Lab, hanno avuto la possibilità di uscire».
Il Co-Lab, spiega Scarsato, «è il luogo di sintesi di tutte le spinte perché è qui che si svolge l’attività di Mappatura Dinamica, un’altra delle azioni fondamentali del progetto che è stata svolta con il supporto dell’Università Bicocca di Milano». Di che cosa si tratta? «Tutti i progetti partono da una mappatura delle risorse del territorio.
Con la Mappatura Dinamica abbiamo voluto fare una mappatura diversa da quella classica e cioè non generica, ma costruita a partire dai bisogni dei pazienti, legati alla vita quotidiana, alle necessità di inserimento lavorativo ma anche dei desideri per il tempo libero
Ci sono tante realtà che possono diventare risorse per chi sta facendo un percorso di recovery: reti di volontariato, enti attivi nel mondo del lavoro, associazioni, biblioteche. Quando un paziente manifestava l’esigenza di trovare una risorsa di questo tipo, ci confrontavamo nel gruppo, incontravamo le realtà e le catalogavamo. In questo modo abbiamo costruito un catalogo delle opportunità a disposizione dei pazienti, che sono stati protagonisti del processo di costruzione della mappa fin dall’inizio Poi questa mappatura personalizzata è diventata un patrimonio comune»
Tra le azioni innovative sperimentate da Recovery c’è stato anche il metodo IPS (Individual Placement and Support, che tradotto significa “affiancamento alla ricerca attiva del lavoro”), una tecnica che ha l’obiettivo di accompagnare le persone che soffrono di patologie psichiatriche importanti per inserirle nel mercato del lavoro libero, con un salario competitivo al pari di tutti gli altri cittadini (ne abbiamo parlato qui).
Ma molte sono state anche le iniziative nate a partire da un altro degli obiettivi del progetto, ovvero quello di favorire una rappresentazione positiva della salute mentale attraverso azioni culturali. Come la Biblioteca Vivente, i Laboratori di Scrittura Emotiva, un Concorso Letterario, Serendippo, la trasmissione radiofonica su “tutto ciò che nella vita di ogni giorno fa salute mentale” e il Metamorfosi Festival, un progetto ideato da Teatro19 con l’Unità Operativa di Psichiatria n.23 degli Spedali Civili di Brescia. Un evento che coinvolge teatro, cinema, workshop, incontri e che è frutto di un lavoro di co-progettazione condivisa tra artisti, operatori, utenti dei servizi e cittadini (lo abbiamo raccontato in questo articolo).
Abbiamo chiesto a Paolo Scarsato di dirci che cosa è cambiato a Brescia e a Mantova grazie agli interventi del progetto: «A me sembra che si sia davvero toccato con mano le potenzialità della comunità locale e di una rete integrata da tante anime a supporto della salute mentale.
Abbiamo attivato associazioni che inizialmente ci dicevano “ma noi non ci occupiamo di salute mentale”, però nel percorso si sono rese conto che quello che già facevano influiva sul benessere delle persone perché è vero che il benessere individuale diventa benessere collettivo ma anche viceversa: il benessere collettivo favorisce quello individuale
Tra tutte le innovazioni introdotte grazie al progetto, qual è stata la più significativa?
Se devo scegliere dico il Co-Lab. I Co-Lab sono “terre di mezzo” tra servizi istituzionali e comunità, punti di orientamento facilmente accessibili per chi ha bisogno, luoghi in cui transitano conoscenze e prima non c’erano, di fatto sono precursori delle Case di Comunità. Sono punti di orientamento dove non facciamo interventi clinici ma se capiamo che c’è un bisogno importante facciamo da tramite con i servizi. Oltre ad avvicinare la comunità ai temi della salute mentale, avviciniamo i servizi alla comunità, sappiamo infatti che nella salute mentale l’intervento precoce favorisce un esito migliore. Cambia un sistema in cui vengono valorizzati sia pazienti che famigliari senza distinzioni rigide di ruoli, qui è tutto più facile da sperimentare, in un servizio istituzionale è più difficile. La dimensione del Co-Lab ci ha permesso il contatto con pazienti anche durante il Covid e, nel rispetto delle regole, più flessibilità. Ci siamo accorti che è una creatura dinamica, si modifica in base agli interlocutori, alle risorse che si incrociano, si trasforma grazie a chi c’è al suo interno. Ai 20 corsi del Recovery college che abbiamo programmato si sono iscritte tantissime persone di cui una parte minima è di pazienti e famigliari in carico ai servizi, il resto sono cittadini interessati. E questo accade anche grazie al fatto che i corsi si tengono nei Co-Lab e non nei servizi. Il fatto che uno studente, un cittadino, si trovi a partecipare a un corso tenuto da un Esp riduce lo stigma che circonda la malattia mentale, che era uno degli obiettivi principali di Recovery Net. Sono felice perché i Co-Lab stanno davvero diventando dei laboratori di comunità.
Che cosa è accaduto che non era stato previsto? E che cosa non è accaduto e il progetto non è riuscito a realizzare?
Sicuramente l’imprevisto più importante è stata la pandemia che ci ha costretto ad uno sforzo di riprogettazione e fantasia per trovare nuove modalità per portare avanti le azioni del progetto. Ovviamente abbiamo dovuto implementare tutta la parte degli strumenti online e, in un momento in cui le due ASST si sono trovate a gestire un’emergenza così grande con ripercussioni anche sui Servizi per la salute mentale, si è mostrato molto utile il supporto che hanno saputo dare i partner del progetto. Alcune attività, come il teatro, la mappatura, i corsi del recovery college si sono realizzati proprio grazie alle risorse esterne ai Servizi. Un esempio particolare di quanto è accaduto durante il primo lockdown e che non era nei nostri progetti: la realizzazione di un gioco da tavolo. Un gruppo di operatori, pazienti e familiari hanno fatto una serie di incontri on-line per inventare un gioco che permettesse di parlare dei temi del benessere in modo leggero e ludico. È nato così “Tutti dentro, tutti fuori: sfida all’ultima domanda, per chi pensa che la salute mentale sia solo degli altri”.
Un’azione che non siamo riusciti a sperimentare è stata quella del “social prescribing”. Prendeva spunto da un’esperienza inglese che avremmo voluto provare anche nel nostro contesto: l’idea era che i medici di medicina generale potessero prescrivere non solo terapie e/o accertamenti, ma anche l’incontro con un operatore (link worker) che facesse da tramite con le risorse della comunità e del territorio. Ovviamente il periodo della pandemia non ha reso possibile il coinvolgimento dei medici.
Quali sono state le principali difficoltà?
La vastità del territorio e la peculiarità delle singole realtà in cui operava Recovery Net. È stato costituito un partenariato numeroso fra soggetti diversi, molti dei quali non avevano mai lavorato insieme. C’è stato quindi un lavoro importante sulla governance che ha richiesto anche aggiustamenti in itinere per rispondere alle esigenze organizzative specifiche.
C’è una storia che più di ogni altra racconta la trasformazione che il progetto ha generato?
Le storie che mi vengono in mente sono quelle legate ai nostri pazienti e alle persone che ci hanno aiutato a realizzare questo progetto. Storie che raccontano trasformazioni personali che sono anche una trasformazione dei Servizi.
Penso a un paziente che era in un momento difficile della propria vita, con una storia di malattia pesante che l’ha portato a perdere il lavoro e le relazioni. Ha accolto la nostra proposta di mettersi in gioco nel gruppo di “mappatura dinamica” ed è riuscito ad attivarsi per cercare una risorsa sul territorio per occupare il tempo libero… c’è stata un’intervista all’assessore del comune, poi alle ACLI e, grazie a questi incontri e alle opportunità che si sono aperte, questo paziente ha trovato un impegno da volontariato, si è dunque riattivato, è tornato a studiare e ora ha trovato un lavoro ed è soddisfatto della propria vita. Tutto questo non sarebbe successo se non avesse trovato uno spazio di protagonismo all’interno del gruppo di mappatura dinamica.
Poi mi viene in mente quest’altra storia: una persona con la passione della fotografia si era offerta per fare un corso presso il Co-Lab e noi abbiamo rilanciato dicendo che non sarebbe stato interessante un corso in sé (come ce ne sono tanti in giro) ma l’idea di raccontare storie di recovery attraverso la fotografia. Questo fotografo e un nostro paziente ESP allora hanno ideato insieme un percorso sulla fotografia costruito mettendo in relazione il linguaggio della tecnica fotografica con quello della vita.
Che cosa resta sul territorio che prima non c’era?
I Co-Lab non solo restano ma sono stati presi a cuore dal territorio. A Brescia ci chiedevamo cosa sarebbe successo al termine del progetto finanziato da Fondazione Cariplo e c’è stato un movimento spontaneo delle realtà del territorio che hanno inviato una lettera alla ASST e all’Amministrazione Comunale per chiedere di trovare le modalità e le risorse per dare continuità al Co-Lab. Restano spazi, ma anche relazioni e connessioni tenute vive anche grazie alla figura del Community Manager.
Quali sono i progetti futuri a cui state pensando, innescati grazie anche all’esperienza e agli apprendimenti del progetto?
Il primo si è concretizzato proprio nelle ultime settimane. È un progetto finanziato da Regione Lombardia (nel bando Giovani Smart) che abbiamo chiamato YouthCoLab (www.youthcolab.it) e che è dedicato in modo specifico ai Giovani. Nel progetto RecoveryNet non c’erano azioni specifiche per i giovani, ci è sembrato molto importante partire dalle “lezioni apprese” per fare una proposta dedicata a questa fascia di età. Stiamo poi collaborando alla stesura di un altro progetto promosso dalle realtà del quartiere che è inserito nell’ambito di Bergamo-Brescia capitali della cultura 2023, come occasione per mantenere attiva la rete e le relazioni nella comunità.
E poi c’è il percorso sulla fotografia che ha entusiasmato i partecipanti e che nei prossimi mesi diventerà una mostra: «la fotografia si nutre di ombre e di luci e anche nella vita ci sono momenti belli e momenti meno belli, servono entrambi. Per scattare una bella foto è importante regolare il tempo di esposizione: anche nella vita ci sono situazioni in cui bisogna andare veloce e altre in cui serve rallentare. E poi c’è la profondità di campo: alle volte è necessario soffermarsi sui particolari, altre provare una visione di insieme»